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LA SPECIALE NORMALITA’

Il primo giorno, tra anni fa, con loro la strada mi pareva davvero in salita. Non avevo mai visto nessuno di più spaesato, al primo giorno di scuola, che quei quattro ragazzi arrivati dall’Africa.

Loro conoscevano solo qualche parola in italiano, e noi ovviamente nessuna parola di bambara, la lingua tonale parlata nel Mali.

Oggi, tre anni dopo, stanno facendo l’esame al termine di questo incredibile anno scolastico che ricorderemo come l’anno del coronavirus.

Non era un fatto nuovo per la nostra scuola avere alunni con enormi difficoltà di lingua. Ho sempre pensato che, se mi fossi trovato al posto loro, sarebbe stato terrificante per me adolescente essere in un paese straniero in una classe in cui non capivo neppure una parola e con un insegnante che scriveva cose per me senza senso alla lavagna. Per cercare di stabilire un contatto con i ragazzi stranieri, al di là della lingua, ho imparato qualche trucco. Ad esempio, tocco la lavagna mentre dico il suo nome, e chiedo ai ragazzi di dirlo nella loro lingua, poi provo a ripetere. Non è un granché come trucco, ma mi permette almeno di sentire la loro voce e di farli sorridere sentendo la mia pronuncia. Così ho fatto, quel giorno di tre anni fa. Lavagna, banco, penna, orologio, quaderno, libro. Mi rispondevano con un filo di voce, intimoriti. Pennarello, come si dice pennarello? Si guardarono tra di loro e bisbigliarono qualcosa. Poi fecero segno di no con la testa. “Come si dice pennarello al tuo paese?” chiesi di nuovo. Quello che parlava meglio italiano mi rispose: “Quelo no ce”, quello non c’è. Non c’era la parola per pennarello, perché al loro paese non ne avevano mai visti. Devo insegnare elettrotecnica a questi ragazzi. La vedo durissima, pensai.

L., S., Y. e D. abitavano in un centro di permanenza temporanea distante 4 chilometri dalla scuola. L. sorrideva sempre, e dopo il primo anno di corso trovò lavoro ad Arquata. Era dispiaciuto di lasciare la scuola, ma felicissimo di avere un lavoro. L’ho rivisto una mattina d’inverno, mentre pedalava sotto la neve per fare i 15 chilometri che lo avrebbero portato al lavoro. Sorrideva anche sotto la neve. Hai freddo? Un po’, prof.

S. sembra sempre spaventato, mentre si guarda intorno con i suoi grandi occhi bianchi. Un giorno gli ho chiesto se a casa stavano tutti bene, se aveva telefonato. No, io non telefono. Perché? Perché non ho nessuno a cui telefonare. Mamma e Papà sono morti nella guerra. All’esame S. è venuto con sulla maglia il logo della sua squadra di calcio: è terzino a Casal Cermelli.

Y è il figo del gruppo. Quello che più si è italianizzato, che ogni tanto fuma una sigaretta, quello che sente la musica con gli auricolari. Quello che ci ha fatto il regalo più grande che mi ha spinto a scrivere di loro.

D. è talmente magro e lungo, che sembra ancora più magro e più lungo di quello che è. Seduto al banco, non poteva tenere la gambe piegate, per non alzarlo, e così ha fatto lezione sempre con le sue lunghissime leve distese davanti al banco. Non ci stava proprio, ma non si è mai lamentato.

Se tutti gli alunni fossero così, saremmo nel paradiso dei prof, dicevamo speso tra noi insegnanti. Sempre presenti, sempre puntuali, con quaderno e penna. Mai una volta che li si sia dovuti richiamare, che siano entrati in ritardo dopo l’intervallo, che gli sia dovuto chiedere di smettere di chiacchierare tra loro. In un attimo hanno imparato le parole fondamentali che alcuni alunni proprio non riescono ad imparare: buongiorno, grazie, prego, arrivederci. Il meglio di loro lo hanno sempre dato in laboratorio, creandoci qualche problema. Quando il resto della classe era ancora alle prese con il primo impianto, loro avevano già finito il terzo.

E’ venuto alla fine il tempo dell’esame per S., Y. e D. I primi due hanno già il lavoro pronto, e cominceranno oggi pomeriggio in una azienda di impianti elettrici della zona. D. è disperato, perché l’azienda in cui ha fatto lo stage, che voleva assumerlo, gli ha detto di aspettare settembre perché ora è tutto fermo causa coronavirus.

Y. all’esame, davanti alla commissione, ha voluto leggere una lettera di ringraziamento alla scuola. Non mi era mai successo in 22 anni di insegnamento che un alunno facesse una cosa simile.

Ciao Caro For.Al, 

ti vorrei ringraziare per questi fantastici tre anni che ho trascorso qua dentro la scuola. Peccato che non conosco bene le parole per descrivere tutto ciò che hai fatto per me ma vorrei comunque ringraziarti per tuto quello che questa scuola mi ha insegnato. MI sento di scrivere questa lettera per esprimere tutto ciò che penso e sento per voi. Questa bellissima esperienza mi ha aiutato a cresce sia dal punto di vista scolastico lavorativo e anche come uomo. Ho trovato un ambiente sereno, mi sono sentito accolto e tutte le mattine per me era un piacere venire a scuola. E’ stato un piacere ogni singolo minuto che ho passato qui dentro alla scuola, sarò per sempre riconoscente e non lo dimenticherò mai per tutta la vita”. 

Grazie Y. Ma ripensandoci, non abbiamo fatto nulla di speciale per te. Abbiamo fatto quello che facciamo normalmente. Ma a volte, è proprio la normalità ad essere speciale.